martedì 13 marzo 2012

Le montagne di Bilbao.


“L’Europa unita l’ha fatta la Ryanair, non Jean Monnet o i Trattati di Roma” diceva Giuliano Amato in un’intervista radiofonica.  Alla formazione della mia prospettiva europea molto poco hanno invece contribuito Marina Toya e Elisabetta Rosati, oscure professoresse d’inglese negli anni della scuola, e tantomeno il 6° livello del corso Berlitz che sbandiero con i colleghi dell’ufficio. A testimoniarlo impietosamente ci sono le sei mail e un paio di telefonate scambiate con la cortese MariCarmen della pensione “Anorga” di Donostia per prenotare una stanza. Quando venerdì 9 marzo alle ore 15:00 atterro a Santander, controllo per sicurezza il mio biglietto aereo: allontanandomi dall’aeroporto ho la netta sensazione di essere finito in un sobborgo di Tegucigalpa, Honduras, nell’ora della polverosa siesta. In realtà la Cantabria, la regione che attraverso a bordo di una Skoda Fabia discreta quanto una giacca di Nino Frassica, produce in me la miglior disposizione d’animo: a sinistra ho il mare, a destra verdi montagne e Parchi naturali e i tossici che tentano di molestarmi al primo autogrill si accontentano di un ruvido “No hablo espanol”. Quando però dopo settanta chilometri il cartello mi informa che sono entrato nel País Vasco e il Golfo di Biscaglia si apre imponente alla vista, una forte gioia inizia a farsi sentire. L’emozione è tale che non mi faccio mancare un paio di giri consecutivi del raccordo autostradale che avvolge (si fa per dire) Bilbao e il vano tentativo di pagare il pedaggio con il badge aziendale.  L’inorridita casellante che viene in mio soccorso riesce perfino ad indicarmi la strada per il centro cittadino.

 Il primo impatto con il capoluogo di Bizkaia è un condensato delle peggiori "banalità da esplorazione": la gente mi appare tremendamente ben disposta e sorridente, in un'empatia fatta di sguardi e poche parole; tutti indossano bellissime scarpe da montagna ed emettono suoni deliziosi, l’acqua del Nervión deve essere sicuramente chiara e pura come quella di un torrente alpino e perfino la polizia non sembra poi così cattiva. Mi riporta alla realtà il portiere dell’albergo, con la richiesta di un duplice supplemento non previsto per la colazione e il parcheggio dell’auto. Comunque inebriato (doppia Cruzcampo e un diavolo di bocadillo) mi lancio per le vie di Bilbao come se la conoscessi da sempre: vago piacevolmente, mi fermo e osservo, riparto e seguo il fiume e alla fine di una strada intravedo la prima delle mie mete: il Guggenheim Museum.



Con pudore mi introduco nelle sue enormi stanze e mi faccio guidare da chi ha scelto per me: con Constantin Brâncuşi, scultore romeno dalla faccia che mi conquista, ci capiamo subito; godo dei suoi ritratti, degli abbracci tra innamorati e dei tagli impressi su pietra e legno. Con Richard Serra di San Francisco le cose non vanno altrettanto bene, e nonostante provi e riprovi a smarrirmi nei corridoi delle sue lastre di acciaio, finisco per annoiarmi. Jeff Wall e la sua “A hunting scene”, una foto di tre metri retro illuminata a mo di diapositiva, mi portano con due nativi indiani (credo) armati nella periferia di Vancouver, mentre è un pizzico di sciovinismo a farmi esplorare la rappresentanza italiana: Pistoletto e gli specchi, Enzo Cucchi e la gomma. Osservo ammirato gli scatti della Lipsia anni settanta, le foreste canadesi e il sottoproletariato di Manchester. Alla fine arrivo a una serie di trascurabili immagini che riproducono i momenti storici più importanti del 900; decido di non lasciare il museo fino a che non avrò individuato tutti i protagonisti: sarebbe quasi un percorso netto con Lenin, Hitler e Gorbaciov, Churchill con Roosevelt e Stalin a Yalta e uno stanco Ben-Gurion, se non fosse per l’ultima foto. Chiedo l’aiuto da casa rivolgendomi a una spaventata guida e lascio il museo: in fondo in fondo, mi dico, De Gaulle era solo uno sporco fascista.  
          
        

Edward Steichen, Portrait de Constantin Brâncuşi

Quando alle 21:00 addento melanzana e gambero del primo Pintxos della mia vita il cerchio sembrerebbe chiudersi. Eppure c’è qualcosa che ronza nella testa, provo senza successo a far chiarezza con il secondo Pintxos salsiccia e peperone, ma è solo quando la birra incontra il salmone del terzo stuzzichino che tutto mi appare chiaro: sono in Euskal Herria da quasi quattro ore e non ho ancora visto un’ikurriña. L’idea di questo viaggio nasce soprattutto per omaggiare e incontrare un popolo speciale che ho imparato a conoscere attraverso libri, foto e film. Nel corso degli anni mi sono appassionato alla tenacia e alla determinazione con cui questa gente ha combattuto la violenza del franchismo e del centralismo di Madrid, a volte in silenzio, a volte più rumorosamente. Le immagini dell’arroganza con cui la polizia chiuse le sedi di Batasuna nel 2002 sono ancore fresche nella mia memoria, mentre guardo questi anziani esiliati dai loro locali parlare agli angoli delle strade. Cerco, senza successo, tracce di questa storia. Torno in albergo dove mi consolo con un bagno caldo e uno speciale in Euskara su Vogliamo vivere! di Lubitsch.

Alle 23:00 ceno allegro alla Sidrería Asador Arriaga (http://www.asadorarriaga.com/), interrogandomi sulla drammatica e devastante diffusione del Sidro che sto riscontrando a Bilbao (per non tacer di video poker e canali TV dedicati alla cartomanzia). Marisol, donna simpatica e forte che qui lavora, si prende cura di me, consigliandomi piatti e bevande e intrattenendomi a lungo sulle proprietà dei pimento con cui è stato condito il mio baccalà. Quando però le chiedo di ETA si rabbuia, avverto fastidio e sofferenza, e le uniche parole che escono dalla sua bocca sono più o meno queste: “Oggi abbiamo benessere e turismo, siamo la locomotiva della Spagna, indietro non si torna”. La saluto triste, mentre una sigaretta e una vodka mi fanno compagnia per un’ultima esplorazione di Casco Viejo. Ma con la mente sono già alle Ikurriñe di Donostia. 

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